Criptovalute in bilancio: alcune osservazioni
- Gianmarco Pollice
- 28 apr 2022
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 29 ago 2023
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Ormai tutti parlano di criptovalute. Quasi tutti abbiamo provato l’ebbrezza di fare qualche acquisto, anche piccolo, magari con il sogno di risvegliarci milionari in un prossimo futuro o solamente per lo sfizio di comparire nella mitica blockchain (per i più nerd). Sto parlando soprattutto di privati, persone fisiche, investitori retail. Con il passare del tempo, però, le criptovalute stanno acquisendo un significato sempre più profondo ed un’utilità percepibile anche dai più “tradizionalisti” e soprattutto in ambito aziendale. Pensiamo, ad esempio, alla problematica attuale dell’inflazione, o alla necessità di effettuare transazioni con una certa parte del mondo senza restrizioni.
Molti soggetti, tra cui anche imprese con parecchia liquidità disponibile (uno di quei problemi belli) si trovano a dover fare i conti con la perdita di potere d’acquisto e, in un contesto in cui i mercati non convincono in fatto di rapporto rischio-rendimento, strizzano l’occhio alle criptovalute come metodo per preservare il valore della propria liquidità. Con giudizio. Ed ecco allora che diventa sempre più rilevante il seguente quesito: io imprenditore (soggetto ITA GAAP), come devo contabilizzare le criptovalute in bilancio?
Cerchiamo di capire a che punto siamo con la questione, provando a ripercorrere brevemente i ragionamenti che sono già stati fatti, e magari a fare qualche piccola osservazione prendendo spunto da questi ultimi.
Le criptovalute nei principi contabili internazionali
Il dibattito più autorevole, al momento, è avvenuto a livello internazionale, nel contesto di pubblica discussione dell’IFRS Interpretations Committee (Tentative agenda decision on holding cryptocurrencies - March 2019), a cui hanno partecipato varie istituzioni (sia pubbliche che private). Da tale dibattito, nonostante ci si sia concentrati a inquadrare il fenomeno nell’ambito dei principi contabili internazionali (IAS/IFRS), è possibile comunque estrapolare alcuni concetti fondamentali e provare a “riciclarli” nel nostro sistema OIC. Dopotutto anche l’OIC 11, anche se solo nelle motivazioni e molto velatamente, prevede che laddove un principio contabile internazionale risulti conforme ai postulati previsti nell’OIC 11, e non vi siano altri OIC applicabili in via analogica, possa essere preso a riferimento dal redattore del bilancio nello stabilire di caso in caso una politica contabile appropriata. Vale dunque la pena buttarci un occhio.
Per prima cosa, il Committee osserva come sia necessario, per non finire a parlare del big bang, intendersi su quale significato vogliamo attribuire (nel contesto in analisi) al termine “criptovaluta”. L’universo crypto (e i diritti ad esso associati) è infatti così vasto che è impossibile analizzarne efficacemente la natura senza mettere prima dei paletti. A tal scopo, quindi, vengono prese in considerazione solo quelle crypto che hanno le seguenti caratteristiche:
sono digitali/virtuali, sono registrate su un registro distribuito (es. blockchain) e usano la crittografia
non sono emesse da alcuna autorità/entità
il loro possesso non fa sorgere alcun contratto tra il possessore e una controparte
Non ci vuole un veggente per capire che stiamo parlando delle crypto come il Bitcoin.
La conclusione a cui giunge il Committee è che questo fenomeno può essere, più o meno tranquillamente, inquadrato dai principi contabili internazionali attualmente in vigore. In particolare, queste criptovalute sarebbero da trattare come Inventories (IAS 2), se detenute per la negoziazione/vendita nel corso dell’ordinaria attività, oppure come Intangible Assets (IAS 38). Quindi, per dirla a parole nostre, come rimanenze o come attività immateriali.
Ma come si arriva a questa conclusione? (brevemente). La risposta segue le seguenti linee interpretative:
Dette criptovalute non potrebbero essere trattate come Cash (disponibilità liquide) perché, sebbene possano assolvere anche alla funzione di moneta, la quale ricordiamo consiste principalmente nel consentire lo scambio di beni e servizi definendone il prezzo, non sarebbero ancora abbastanza diffuse in maniera tale da essere accettate come mezzo comune di pagamento (oltre ad essere molto volatili).
Inoltre, esse non potrebbero essere trattate come Financial assets (attività finanziarie) poiché non sono moneta, non sono equity e non fanno sorgere diritti/contratti per lo scambio di attività finanziarie o altri strumenti simili.
L’osservazione 1 è abbastanza condivisibile, PER ORA, anche se il fascino del fenomeno ci vorrebbe portare ad affermare il contrario. Ma sottolineo il per ora (e lo fa anche il Committee). Alcuni studi dimostrerebbero infatti la velocità di espansione delle criptovalute come mezzo di pagamento. Chi vivrà vedrà.
L’osservazione 2 deriva un po’ dalla 1, e un po’ dallo scope dell’analisi, il quale ha escluso a priori le criptovalute il cui possesso fa sorgere diritti contrattuali in capo alle parti. Nulla vieta, però, che possano esistere (penso esistano già) delle crypto classificabili come Financial assets, qualora fossero strutturate diversamente e attribuiscano determinati diritti al possessore. Non è il caso del Bitcoin, ma esiste un mondo oltre.
In definitiva, analizzando il contenuto dello IAS 2 e lo IAS 38, è possibile notare come dette criptovalute possiedano tutti i requisiti per essere classificate come rimanenze o come attività immateriali secondo i principi contabili internazionali.
In particolare, relativamente alla classificazione tra le rimanenze, lo IAS 2 definisce inventories quelle attività i) che sono detenute per la vendita, ii) che sono impiegate nei processi produttivi per la vendita, iii) sotto forma di materiali o forniture di bene da impiegarsi nel processo di produzione o nella prestazione di servizi. In ambito crypto, viene subito in mente il classico esempio della società di trading, la quale dovrà quindi classificare queste attività tra le rimanenze e valutarle (eccezionalmente) al fair value less cost of sell.
Se invece l’attività non è classificabile tra le rimanenze (per esempio perché detenuta a scopo di investimento), andrà sempre classificata come attività immateriale, definita dallo IAS 38 attraverso le seguenti caratteristiche:
identificabile: cioè separabile e/o derivante derivante da diritti contrattuali o altri diritti legalmente riconosciuti. Un’attività è separabile se può esse separata o divisa dall’entità che la possiede e quindi venduta, trasferita, concessa in licenza ecc.
non monetaria: cioè senza alcun diritto di ricevere (od obbligo a trasferire) moneta;
priva di sostanza fisica: intangibile.
La caratteristica più border line è sicuramente l’asserita natura non monetaria delle criptovalute; il gioco è quasi tutto lì (infatti vedremo più avanti cosa ne pensa a riguardo l’Agenzia delle Entrate italiana).
La classificazione delle criptovalute tra le attività immateriali comporta la rilevazione iniziale delle stessa al costo, e la valutazione successiva a scelta tra:
Il metodo del costo
Il metodo della rideterminazione del valore
Il metodo del costo prevede la classica valutazione al costo al netto di ammortamenti e perdite di valore. Nel caso delle criptovalute, essendo la vita utile delle stesse indefinita, non si dovrà procedere con l’ammortamento, ma si dovrà solo effettuare impairment test. periodico. Quindi, in definitiva, la valutazione sarà effettuata al costo al netto di eventuali perdite di valore.
Il metodo della rideterminazione del valore prevede invece la valutazione al fair value al netto di ammortamenti e perdite di valore. In questo caso, la differenza sostanziale sta nella possibilità di utilizzare, al posto del costo, il fair value, il quale consente di aggiornare periodicamente il valore dell’attività in base a quello che più si avvicina al valore di mercato (il fair value è il prezzo che si percepirebbe per la vendita di un'attività ovvero che si pagherebbe per il trasferimento di una passività in una regolare operazione tra operatori di mercato alla data di valutazione. Per approfondire vedere IFRS 13). L’applicazione di tale metodo è infatti possibile quando vi è la presenza di un “mercato attivo” dell’attività immateriale (come potrebbe essere nel caso del Bitcoin). Valgono le stesse considerazioni del punto precedente relativamente agli ammortamenti, i quali non dovranno quindi essere effettuati.
Queste, brevemente, sono le considerazioni fatte in ambito internazionale, da cui è possibile prendere spunto anche per provare a spiegare il fenomeno in ottica ITA GAAP.
Le criptovalute nei principi contabili italiani
L’analisi condotta dall’IFRS Interpretations Committee, oltre ad entrare nel merito dei principi contabili internazionali, parte da un’indagine sulla natura sostanziale delle criptovalute che può essere sicuramente valida anche nel contesto italiano. Mi riferisco, ad esempio, alle considerazioni relative alla natura non monetaria delle criptovalute, le quali sono basate sull’osservazione oggettiva della realtà economica del momento.
Il nostro standard setter (l’OIC) non si è ancora pronunciato a riguardo, eppure nel nostro contesto sembra esistere una tendenza nettamente contraria a quella espressa dall’IFRS Committee, volta ad assimilare le criptovalute alle valute tradizionali, o peggio, alle valute estere. Dove non è arrivato l’OIC, è arrivata a gamba tesa l’Agenzia delle Entrate con quella che, a mio modo di vedere, rappresenta un po’ un’invasione di campo per chi è abituato a fare il bilancio non solamente a beneficio dello “stakeholder” fisco. In poche righe, citando giurisprudenza europea sull’IVA, l’Amministrazione nella risoluzione 72/E del 2016 assimila le criptovalute alle valute estere, a cui consegue la valutazione in bilancio, per le criptovalute ancora in proprietà dell'impresa, al cambio in vigore alla data di chiusura dell’esercizio (con rilevanza fiscale). Quindi, nella sostanza, l’AdE afferma la natura monetaria di dette attività, andando completamente in direzione opposta rispetto all’IFRS. La valutazione delle attività al cambio in vigore alla data di chiusura dell’esercizio (per di più con rilevanza fiscale), è quella prevista per le attività monetarie in valuta (es. depositi e conti in valuta estera), le quali si contrappongono alle attività non monetarie in valuta (es. partecipazioni e titoli similari), valutate invece al cambio storico, senza adeguamento del cambio a fine anno. Tutti questi indizi conducono dunque alla classificazione delle criptovalute tra le disponibilità liquide in valuta estera, con buona pace del dibattito internazionale. Al più, sempre seguendo questa logica, potrebbe ipotizzarsi una classificazione tra le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, le quali accolgono partecipazioni e titoli similari, obbligazioni e titoli similari, strumenti derivati; le criptovalute non sembrano però essere assimilabili a nulla di tutto ciò (anche se non esiste una definizione precisa di attività finanziaria, come invece accade in ambito IAS/IFRS).
Dopo aver illustrato brevemente ciò che sembra scaturire dalla visione dell’Agenzia delle Entrate, occorre però chiedersi se sono possibili altre strade e dove esse conducano. Vediamo, ad esempio, dove ci conducono le strade tracciate dall’IFRS Committee per i principi contabili internazionali se proviamo a percorrerle in ambito OIC. Per fare quest’esercizio partiamo dall’assunzione di base che le criptovalute non sono considerabili attività monetarie per i motivi già illustrati nella prima parte dell’articolo. In aggiunta, l’OIC 26 recita:
L’art. 2426, comma 2, del codice civile prescrive che per la definizione di “attività monetaria” e “passività monetaria” si fa riferimento ai principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea. Lo IAS 21 “Effetti delle variazioni dei cambi delle valute estere” adottato dall’Unione europea e in vigore al momento della pubblicazione di questo principio fornisce la seguente definizione di elemento monetario.
“Gli elementi monetari sono unità di valuta possedute e attività e passività che devono essere incassate o pagate in un numero di unità di valuta fisso o determinabile” (IAS 21.8). Pertanto per elementi monetari si intendono le attività e passività che comportano il diritto ad incassare o l’obbligo di pagare, a date future, importi di denaro in valuta determinati o determinabili. Sono elementi monetari: i crediti e debiti, le disponibilità liquide, i ratei attivi e passivi e i titoli di debito.
Iniziamo dalla possibilità di classificare le criptovalute tra le rimanenze, qualora detenute per la vendita nel corso dell’ordinaria attività. Il primo problema che salta subito all’occhio è quello di dover classificare tra le rimanenze un’attività priva di consistenza fisica (le crypto). A ben vedere, né il codice civile, né l’OIC 13 inserisce espressamente tra i requisiti delle rimanenze la consistenza fisica dell'attività. Tuttavia, un’attività immateriale tra le rimanenze non è sicuramente una cosa che si vede tutti i giorni (direi praticamente mai). Le rimanenze vengono definite come “beni destinati alla vendita o che concorrono alla loro produzione nella normale attività della società” e vengono poi suddivise in materie prime e di consumo, prodotti in corso di lavorazione, semilavorati, merci e prodotti finiti. Seppur non espressamente escluse, le attività immateriali, tra le rimanenze OIC, non sembrano affatto trovarsi nel loro “ambiente naturale”. Ad ogni modo, si potrebbe anche valutare la possibilità, riconosciuta in ambito ITA GAAP in casi del tutto eccezionali, di aggiungere una voce specificamente denominata, nell’ottica di fornire ai lettori una migliore rappresentazione della situazione finanziaria dell’impresa.
Classificandole tra le rimanenze, comunque, le criptovalute andrebbero rilevate inizialmente al costo di acquisto e valutate successivamente al minore tra il costo di acquisto e il valore di realizzazione desumibile dal mercato senza la possibilità, eccezionalmente prevista dagli IAS/IFRS, di utilizzare il fair value less cost to sell. Trattandosi di poste non monetarie, inoltre, dovrebbe escludersi la valutazione delle stesse a fine anno al tasso di cambio di chiusura dell’esercizio. Per le attività non monetarie è infatti prevista la valutazione a fine anno al cambio storico, salvo la necessità di procedere a svalutazione nel caso in cui la variazione del tasso di cambio rappresenti un indice di perdita di valore.
Passiamo ora ad analizzare brevemente l’opzione di classificazione tra le immobilizzazioni immateriali per quelle criptovalute detenute per scopi diversi dalla vendita nell’ambito dell’attività ordinaria (es. investimento). A livello logico/teorico, sembra possa essere proprio il posto giusto: le immobilizzazioni immateriali sono definite come “attività normalmente caratterizzate dalla mancanza di tangibilità (...) costituite da costi che non esauriscono la loro utilità in un solo periodo ma manifestano i benefici economici lungo un arco temporale di più esercizi”. Più in particolare, i beni immateriali sono beni non monetari, individualmente identificabili, privi di consistenza fisica e sono, di norma, rappresentati da diritti giuridicamente tutelati. Questa definizione ricalca sostanzialmente quella contenuta nei principi contabili internazionali, per cui valgono le stesse considerazioni già fatte in precedenza. I beni immateriali, in ambito OIC, sono rilevati al costo d'acquisto e successivamente valutati a detto costo al netto di ammortamenti e perdite durevoli di valore. Anche in questo caso, trattandosi di poste non monetarie, é escluso l'aggiornamento del cambio al 31/12.
Se a livello logico sembra funzionare, emergono però non pochi dubbi circa il trattamento contabile sostanziale. Per prima cosa, a differenza dei principi contabili internazionali, negli OIC non è presente il concetto di attività a vita utile indefinita, con la conseguenza che le criptovalute iscritte tra le immobilizzazioni immateriali al costo d'acquisto, andrebbero ammortizzate, cosa che effettivamente non suona molto bene. L’OIC 24 in verità recita:
“il costo delle immobilizzazioni immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo, deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”
quasi a mostrare un’apertura nel caso in cui l’utilizzazione non fosse limitata nel tempo. Tuttavia, sembra un’eresia il solo pensiero di non ammortizzare un’immobilizzazione. Si pensi anche, ad esempio, alla vita utile dell’avviamento, che negli OIC non può in nessun caso superare i 20 anni, mentre negli IAS/IFRS è considerata indefinita. Quindi, in concreto, probabilmente nessun amministratore o revisore si azzarderebbe mai a tanto.
Nonostante ciò, è importante tenere a mente che esistono già negli OIC delle eccezioni alla regola dell’ammortamento: mi riferisco ad esempio ai terreni, alle opere d’arte e agli immobili civili. Per i primi due, l’OIC 16 (che ricordiamo riguarda le immobilizzazioni MATERIALI) dice espressamente che la loro utilità non si esaurisce (quella dei Bitcoin si?). Per gli immobili civili, invece, il discorso è in realtà più sofisticato. Non è propriamente vero che essi non si ammortizzano (anzi, ciò rappresenta comunque un’eccezione alla regola), bensì il processo di ammortamento deve essere interrotto se, in seguito all’aggiornamento della stima, il valore residuo risulta pari o superiore al valore netto contabile. Su questo tema, l’OIC stesso precisa, nelle motivazioni, che per i fabbricati non strumentali ad uso investimento sembrano limitati i casi in cui tali fabbricati verranno effettivamente ammortizzati. Tutto ciò per dire che, anche se sembra un’eresia, non sarebbe poi la prima e/o l’unica volta in cui un’immobilizzazione non viene ammortizzata. Ma parliamo, forse, di fantabilanci.
Infine, non esiste in ambito OIC il “metodo della rideterminazione del valore” il quale, nei principi contabili internazionali, consente in alcuni casi l’aggiornamento periodico delle attività immateriali (anche oltre il costo storico). Per un’attività come le criptovalute, soggetta a importanti variazioni di mercato (anche e soprattutto in aumento), può rappresentare un aspetto molto importante. Su questo punto, però, direi che ci siamo abituati.
Conclusioni
Ricapitolando, l’IFRS Committee ha affermato che i principi contabili internazionali attualmente esistenti sono ancora in grado di regolare in maniera sufficientemente adeguata il trattamento contabile delle criptovalute come il Bitcoin. In particolare, viene proposta una classificazione tra le rimanenze, per quelle criptovalute detenute per la negoziazione, o tra le attività immateriali in tutti gli altri casi.
In ambito OIC non ci sono ancora linee guida ufficiali, a parte alcuni interventi di prassi dell’Agenzia delle Entrate, la quale però non è, a mio avviso, l’ente più adeguato a dare indicazioni a riguardo, sia per ruolo istituzionale che per metodo utilizzato. La posizione dell’Agenzia delle Entrate, la quale prova ad ancorarsi a certa giurisprudenza europea in ambito IVA, va in direzione opposta a quella dell’IFRS Committee, affermando la natura monetaria delle criptovalute e assimilandole sostanzialmente a valute estere.
Volendo fare un tentativo di trasposizione di quanto espresso dall’IFRS Committe nella realtà ITA GAAP, il risultato non è soddisfacente. Infatti i principi IAS/IFRS non sono affatto identici in tutto e per tutto agli OIC, e alcune divergenze provocano incertezze non accettabili per chi ha la responsabilità di redigere un bilancio. Inoltre, per garantire un’informativa trasparente e un’ adeguata comparabilità tra i bilanci delle imprese, ritengo sia necessario un intervento interpretativo dell’Organismo Italiano di Contabilità. Nell’attesa si dovrà decidere se, come spesso accade, bisognerà appiattirsi sulle indicazioni dell’Agenzia delle Entrate, le quali portano il redattore a classificare le criptovalute tra le disponibilità liquide in valuta estera o tra le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, oppure percorrere strade spinose (ma probabilmente più sensate) lungo le linee interpretative dell’IFRS.
Ora è tutto chiaro! Grazie Gianmarco